Nell’ultimo periodo, uno dei temi più caldi in tema di dematerializzazione riguarda la conservazione digitale della PEC.
Nonostante si tratti di un argomento già dibattuto in passato, sono ancora molti i dubbi che ruotano intorno alle modalità di gestione di questo strumento, sia che si tratti di enti pubblici che di soggetti privati.
Il problema principale sta nella conservazione degli elementi che compongono il messaggio di posta elettronica certificata, e quindi la busta .eml e il contenuto allegato, che sono veri e propri documenti informatici.
Sappiamo che secondo il Codice dell’Amministrazione Digitale la corrispondenza, ove riprodotta su supporti informatici, ha tutti gli effetti di legge, dunque deve essere conservata a norma, e ancora prima è il Codice Civile ad imporre nell’articolo 2214 la “conservazione della corrispondenza ricevuta e spedita ordinatamente per ciascun affare”.
Ma allora il problema dove si pone?
Come spesso accade, il problema sta nell’interpretazione sbagliata della normativa di riferimento.
Infatti, la maggior parte di coloro che utilizzano la PEC ha la brutta abitudine di stampare il contenuto allegato al messaggio, senza rendersi conto che così facendo le informazioni perdono il loro valore legale; inoltre, a differenza dei documenti veri e propri, la PEC è uno strumento, un mezzo attraverso il quale i documenti vengono inviati: questo il motivo per cui vi sono maggiori difficoltà a regolamentarla con una normativa “standard”.
Dunque è impossibile parlare in modo generico della conservazione della PEC, proprio perché a differenza dei singoli formati in cui sono prodotti o convertiti i documenti, questa li può contenere tutti; di conseguenza bisogna agire secondo il caso specifico: in base alla tipologia di documenti contenuti nei messaggi, è possibile valutare cosa portare obbligatoriamente o necessariamente in conservazione e cosa eliminare.
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